TOR DI NONA: DAGLI ORRORI ALLO SPETTACOLO

TOR DI NONA, DA ORRIDA GALERA A TEATRO  di Claudio Di Giampasquale

Sulla sponda opposta del Tevere di fronte a Castel Sant’Angelo c’è il rione «Ponte» il quinto di Roma. Qui i vicoli e le strade hanno un notevole fascino, un borgo raccolto a ridosso del fiume in un dedalo di vicoletti tra basse palazzine con botteghe ed edicole sacre segno tangibile della devozione popolare. Niente qui sembra appartenere alla grande città, in questo luogo il tempo sembra essersi fermato. In origine tutto il plesso sorse su una piccola altura, anticamente detta «de Posterulis», formatasi probabilmente per l'accumulo dei detriti provenienti dallo scalo fluviale lì a ridosso, ove le derrate che giungevano tramite il Tevere dal porto di Ostia venivano immagazzinate e poi trasportate in città.

Al termine del dodicesimo secolo buona parte di quella zona divenne proprietà della famiglia Orsini, tutta la grande struttura dei depositi fluviali costruita sulle antiche fortificazioni Romane che facevano parte dell’antico «sistema difensivo Aureliano» fu ampliata dalla nobile famiglia e con il tempo il cosiddetto «fortilizio di Monte Giordano» in riferimento al potente cardinale e senatore pontificio Giordano Orsini, venne trasformato in una ricca dimora gentilizia. Gli Orsini vi edificarono un torrione di guardia merlato, quadrato, a tre piani per dar maggior prestigio alle loro proprietà nelle quali s’accedeva solo dalla via «Recta iuxta flumensi» (oggi via Tor di Nona) mentre la parte posteriore s’affacciava a strapiombo sulle rive del fiume. Il termine Tor di Nona fu l’alterazione romanesca dell’«annona», perché proprio lì vi era un importante distaccamento della «praefectura annonae» deputata al controllo, allo stoccaggio e alla distribuzione degli scarichi fluviali.

Nei secoli successivi dopo che Roma divenne la capitale d’Italia, lungo il fiume furono costruiti i muraglioni per contenerne le frequenti esondazioni. Per far posto alle alte muraglie e innalzare la strada gli argini del Tevere vennero arretrati e l’intero complesso fortificato appartenuto agli Orsini fu demolito. Oggi «Tor di Nona» indica il tratto del lungotevere compreso tra la piazza di Ponte Sant'Angelo e quella di Ponte Umberto I, nonchè dà il nome alla parallela via interna tra vicolo dei Marchegiani e via dell’Arco di Parma. Tornando indietro nel tempo, al termine del quattordicesimo secolo l’intero maschio degli Orsini passò per lascito alla «Confraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum» che lo diede in uso alla «Reverenda Camera Apostolica» per ventiquattro ducati d’oro. Il soldano pontificio, un nobile al quale il Pontefice affidava la gestione delle carceri, lo trasformò in prigione pubblica e luogo di esecuzioni capitali. Divenne una lugubre prigione tristemente nota per la stanza della tortura ove spesso si estorcevano le confessioni con ogni mezzo e la «cella del fondo» in cui vi era un oscuro budello nel quale venivano gettati i rei di gravi delitti. La condizione della galera era penosa, l’unico modo per influenzarla era il denaro, magicamente in grado di “ammorbidirne” la crudeltà. Con lo spietato papa Sisto V per effetto della radicale lotta contro i malviventi, le prigioni di Tor di Nona come tutte le carceri di Roma raggiunsero un numero impressionante di detenuti, dalla torre ogni mattina pendevano i corpi degli impiccati al cui collo era legato un cartello con la motivazione della sentenza, il tipo del reato e il nome della vittima. Nelle vecchie piante di Roma il luogo dell’orrida prigione era indicato con una corda penzolante. 

Nel novembre del 1555 Paolo IV da pochi mesi eletto papa, volendo mettere riparo agli abusi commessi all’interno del fortilizio ed auspicando che nelle carceri si tenesse una conduzione meno crudele, affidò in appalto la gestione dell’Ufficio Criminale del Governatore alla «Confraternita di San Girolamo della Carità». Dopo tredici anni il successivo pontefice Pio V concesse allo stesso istituto anche la proprietà degli edifici e il diritto di percepirne le rendite.

Nel secolo seguente, con la costruzione delle «Carceri Nuove» in via Giulia, fortemente volute da Papa Innocenzo X come primo esempio a Roma di penitenziario moderno dove al centro del sistema carcerario venisse posta l'umanità dei detenuti, il penitenziario di Torre di Nona cessò la propria funzione. Della torre non resta traccia.

Dopo qualche anno di desuetudine la confraternita decise di cambiar la destinazione d’uso dei sinistri immobili sul plesso in riva al Tevere. Per purificarne la tragica reputazione la scelta fu radicale e ricadde verso un’esercizio di natura artistica e di spettacolo, aperto a tutti e che anche consentisse introiti: un teatro pubblico. La richiesta fu accolta nel 1669 da papa Clemente IX, anche grazie alla risoluta interposizione della colta e raffinata regina Cristina di Svezia che aveva da poco abdicato al trono per trasferirsi nella città eterna libera da vincoli dinastici. Tutto il complesso fu prima bonificato, progetto e lavori vennero affidati al trentenne Carlo Fontana architetto, scultore e ingegnere stretto collaboratore del Bernini. 

L’intera struttura del fortilizio venne riconsiderata, fu realizzato un auditorium ad "U" che abbracciava il palco, in grado di mostrare visioni sceniche multiple ad ottica variabile all'insegna del dinamismo, venne inizialmente chiamato «Teatro Tordinona». La costruzione lignea decorata era accessibile sia da terra che dal fiume. L'inaugurazione avvenne nella primavera del 1670 con un’allegro spettacolo interpretato dall’attore Tiberio Fiorilli nei panni del prode Scaramuccia. La vicinanza del fiume fu dannosa per la conservazione dei materiali impiegati, passò solo un ventennio, e nonostante numerosi interventi di fortificazione in muratura, gran parte delle strutture lignee si deteriorarono irrimediabilmente. Così papa Innocenzo XII lo fece demolire, tra intense contestazioni popolari e non pochi contenziosi giudiziari. Dopo cinquant’anni di abbandono ne fu ordinata la ricostruzione da papa Clemente XII, a spese della Chiesa. Trascorse un ulteriore mezzo secolo che lo sventurato edificio fu di nuovo fuori uso perché devastato da un incendio. Dopo vari tentativi di ripristino e di riapertura al pubblico con il nuovo nome «Teatro Apollo», la ricostruzione finale fu completata solo nella prima metà del secolo diciannovesimo, dopo l’acquisto da parte del facoltoso banchiere Alessandro Torlonia che per completarne il restauro s'affidò all’esperienza ed al prestigio dell’architetto Giuseppe Valadier.

Nel 1840 la gestione dell'Apollo venne affidata all’impresario teatrale Vincenzo Jacovacci che grazie alle sue indiscusse capacità fece vivere al teatro le stagioni più autorevoli, ospitando il meglio della proposta artistica internazionale dell'epoca, i compositori più noti, i cantanti più importanti, le ballerine e gli attori più prestigiosi. Giuseppe Verdi la sera di mercoledi 19 gennaio 1853 vi dette la prima de «Il Trovatore» e sei anni dopo il 17 febbraio del 1859 la prima de «Il Ballo in maschera» quella sera il pubblico presente riservò al grande compositore emiliano ben venti chiamate alla ribalta, ed anche nelle serate successive vi fu sempre il tutto esaurito e la gente urlava a squarciagola un emblematico «Viva Verdi» a mò di allusivo acronimo della sentita e crescente causa dell’unificazione italiana sotto l’egida del Piemonte: «viva Vittorio Emanuele Re DItalia». Quando la città eterna divenne capitale d’Italia, negli spalti del Teatro Apollo fu aggiunto il palco reale in onore al Re, che la sera di mercoledi 22 marzo 1882 presenziò alla prima assoluta di «Le duc d'Albe» di Gaetano Donizetti.

Come detto, le continue inondazioni del Tevere imposero al nuovo Stato la costruzione di alti argini che contenessero il fiume per proteggere la capitale. Anche la demolizione del Teatro Apollo fu inevitabile. Dal 1888, quest'edificio non esiste più, ma sia il teatro che tutto il fortilizio al posto del quale fu costruito, possono sicuramente vantarsi d'aver scritto nel male e nel bene uno dei romanzi più importanti ed emozionanti della città, dai tempi dell’antica Roma sino all’unificazione dell'Italia.

Per commemorare il Teatro Apollo è sorta nel 1925 una fontana-stele che oggi si può notare percorrendo il Lungotevere Tor di Nona, con alle spalle lo splendido panorama offerto da Castel Sant’Angelo.

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