SAN GIOVANNI CHE NON C'E PIU

SAN GIOVANNI CHE NON C'È PIÙ

di Giovanni Gigliozzi (Roma, ieri, oggi, domani n. 2 Anno 1, giugno 1988)


Il 23 giugno, "Notte delle Streghe", era tutto uno spettacolo fuori Porta San Giovanni; la sfilata dei carri, la corsa al sacco, l'albero della cuccagna, i fuochi dei porchettari, le lumache al sugo e la gara canora: «Lassatece passà semo romani...». Poi divenne una festa del dopolavoro.

Ce n'era di gente la sera del 23 giugno 1891 all'osteria di Facciafresca fuori di Porta San Giovanni. Quelli che erano entrati sotto la pergola stavano seduti ai tavoli o in piedi davanti al palchettone sul quale avevano preso posto i musicanti, altri spiaccicati intorno alla staccionata che delimitava lo spazio all'aperto del locale. «Facciafresca» si fregava le mani. Ce n'erano tante di osterie con la frasca fra il verde fuori di Porta San Giovanni dove le acacie i castagni e i pini, con i filari delle viti che passavano attraverso gli orti, per la notte delle streghe, oltre alla luna nuova, s'accendevano dei riflessi colorati di cento e cento lampioncini dalle forme più strane. Lampioncini di carta sostenuti da una leggera armatura di fil di ferro che fingevano serpenti, zucche e a titolo di scongiuro persino la faccia scarnificata della morte; ma tutto dipinto a tinte forti. C'era il verde tappeto dei prati e la strada ancora bianca di polvere percorsa dalle botticelle dei bisboccianti o dai carrettieri a vino, con il soffietto abbassato, che venivano dai vicini Castelli, perché in occasione della festa di «sciurio» se ne consumava parecchio. Aveva ben ragione Facciafresca ad essere allegro. Nessun locale era stato preso d'assalto come il suo. Pietro Cristiano, un libraio olandese che aveva rinunciato al suo ostico cognome per chiamarsi semplicemente Cristiano in omaggio ad una città dove cristiani sono tutti, anche le statue alla guardia dei ponti e delle porte, perché il suo Vescovo è il Papa, aveva bandito un concorso per la più bella canzone romana e fra poco, sull'improvvisato palchettone della trattoria campestre i cantanti si sarebbero esibiti e giuria e pubblico avrebbero attribuito i premi.

La facciata della basilica era ridisegnata contro il fondale della notte dalla luce delle fiaccole e grandi padelle di sego messo ad ardere sulla sommità delle mura antiche segnavano il confine fra città e campagna; ma allora la campagna entrava in città perché fra casa e casa v’erano orti e vigne di conventi, giardini di nobili ville, ritagli di terra coltivata ad insalata e pomodori proprio dietro a casette di uno o due piani con tanto di mignano adorno di vasi di gerani. Tempo pochi anni e la colata di cemento dei palazzinari d’allora (secondo sacco di Roma, ma quanti sacchi mai avrà da sopportare questa benedetta città?) spuntati come funghi dopo la proclamazione della Capitale.

Dalle nostalgie torinesi della falange di burocrati ministeriali sarebbero nati i portici di Piazza Vittorio, le strade allora eleganti del Macao. In attesa della gara canora, una vera primizia nell’albero genealogico dei festival tipo San Remo, questa però più vicina alla Piedigrotta napoletana, il pubblico stimolava sfottente gli orchestrali: “Musica, sor peloso! E damoje de sdegno”.
Quelli per rendere più sopportabile la confusione cercarono di darle un ordine musicale intonando delle strofette molto in voga: “Sotto ar fresco della pineta quann’è la sera…”. E il pubblico in coro: “Come canti bé!“. E ancora dal palcoscenico un improvvisato solista: “C’é un profumo de giovinezza e de primavera…” e il coro di quelli che avevano alzato il gomito ai tavoli e della folla ammassata un po’ dovunque riprendeva: “Arifacce un po’…”. Ed ecco finalmente l’introduzione vera e propria: “Lassatece passà semo romani…” e il presentatore lustro e impomatato con tanto di ghette.

A Trilussa le canzoni di San Giovanni non andavano troppo bene. Ne mise a nudo gli ingredienti del successo: “Mettece San Giovanni, Faccia fresca, la spighetta, er garofano coll’ajo er bacetto, le streghe, quarche sbajo e fai la canzonetta romanesca.”

“Signore e signori rispettabile pubblico e inclita guarnigione…» Qua e là nella colorata confusione del pubblico si notava un soldato in permesso, qualche carabiniere e una certa rappresentanza di guardie di città intervenute a ristabilire la calma nel caso che, durante il concorso, si fossero verificati disordini. “…su questo palco fra poco udrete le nuove canzoni di Roma e si esibiranno le più ammirate vedettes italo-partenopee. Il commendatore Leopoldo Fregoli…”. Nessuno poté sapere il seguito perché a questo punto il palchettone sovraccarico sprofondò e vi fu una confusione di chitarre, mandolini, trombe, bombardini, gambe e mani che si agitavano per riguadagnare un appiglio per poter sollevare la testa dal buio del sottopalco. E Facciafresca che urlava: “Li mortacci loro! (Forse degli osti in concorrenza). Cianno fatto er malocchio!” E la notte di San Giovanni al malocchio c’è da crederci. Cristiano, l’olandese editore musicale romanizzato, cercava di calmare Facciafresca: “Non si preoccupe, non si preoccupe. A tutte c’è remedia”. E il rimedio ci fu. La sera dopo, al gran varietà Orfeo, in via Depretis (la sala è stata demolita soltanto qualche decennio fa) si fece con straordinario successo l’audizione e la prima canzone classificata fu «Le streghe.» del maestro Alipio Calzelli interpretata da Fregoli. Dalle canzoni di San Giovanni presero le mosse cantanti famosi, come quella Lina Cavalieri, la più bella donna del mondo, che cantò una Tosca con Caruso (ma forse fu qualche altro celebre tenore) ed ebbe un grande successo forse più che per la voce, per aver stampato un bel bacio al naturale sulle labbra del suo partner.

Fu nella profumata notte di giugno che fiorirono le serenate a le Nine, a le Nunziate, che si vantarono le doti gastronomiche dell’umile lumaca: “Che lumachella, che bon odore e poi er sapore l’hai da sentì…” Ciò messo un peperone ch’era ‘na sciccaria Venite, su, assaggiatela sta lumachella mia…” dove è fin troppo evidente il doppio senso. Ma lumache cotte nel sughetto saporito se ne mangiavano nelle belle tavolate all’aperto un po’ dovunque la notte di San Giovanni. Perché hanno le corna e portano fortuna. Ma come ancora ammoniscono le romane autentiche (ce n’è rimasto qualche raro esemplare) le lumache devono essere fatte spurgare per tre giorni in aceto e pangrattato e poi lasciate all’acqua corrente “sinnò te vie’ la cacarella de San Giuvan de Giugno che si te va bene te dura armeno tre giorni sinnò…”.

Anche Giuseppe Gioachino Belli cantò i dispiaceri di “San Giuvan de giugno”: le streghe che volano sulla scopa, le precauzioni da prendere contro i malefici (una capoccia d’aglio sotto il giustacuore), i campanacci di coccio per scacciare gli spiriti folletti. Naturalmente il popolo non sa che si tratta d’un’eredità di sfrenato godimento lasciataci dall’antico Dio Pan).

Però Peppe er Tosto non dimenticò di descrivere il godimento del risveglio di primo mattino dopo la festa, avendo dormito “come un porco” cioè con la felicità d’un sonno profondo sollecitato dal vino, su un prato bagnato dalla rugiada e profumato di rosmarino e di spighetta.

Poi San Giovanni diventò una festa organizzata dal Dopolavoro, cominciarono a costruire i primi casermoni; ma io a cinque sei anni ho fatto ancora in tempo a cogliere il ricordo di quella che è certamente stata la più bella e antica festa popolare di Roma. Giovanni il Battista, santificato dalla visita di Maria fin dal seno di sua madre Elisabetta, è l’unico santo di cui la Chiesa festeggia il giorno della nascita. Per tutti gli altri santi del calendario il dies natalis è quello della nascita in cielo. E d’altra parte i suoi non buoni rapporti con Erodiade e con la principessa Salomé, sua figlia che ottenne la testa del profeta con la danza famosissima dei sette veli, che altro non era che una danza del ventre: quella danza del ventre che il perfido serpente, secondo anti-che leggende semitiche, avrebbe insegnato ad Eva per aver ragione di Adamo, creano il legame fra la festa del Santo e le Streghe. In realtà le gaie feste del plenilunio estivo già esistevano e non essendo del tutto caste vi s’intravide l’ombra del nero caprone: il demonio. Ed è per scacciare lui e il suo infernale corteggio che in tanti luoghi, specialmente sulle alture nei paesi nordici, si accendono i fuochi di San Giovanni. Quando i miei mi ci condussero avrò avuto cinque o sei anni.

I bianchi fuochi che vidi erano quelli dell’acetilene dei porchettari che dando di mazzolo sul coltello per colpire la crosta dorata del maiale arrosto gridavano i loro inviti nelle forme più strane: «La porchetta de Cadorna chi la magna ciaritorna!» Difficile scoprire il legame fra Cadorna e la porchetta se non una ragione di rima: ma ancora più difficile il rapporto con la Croce Rossa. Un giovane biondo, dal bel viso nero dal fumo dell’acetilene, mostrando già preparato un bel taglio di porchetta, guarnito di finocchiella e rosmarino, al gruppetto di gente che gli si era formato intorno si sgolava mentre andava porgendolo: «’N anticchia ‘e musica a beneficio della Croce Rossa!». Ancora non erano morte le vecchie superstizioni. Mia zia Elvira chiese a mia madre se aveva lasciato la scopa dietro la porta perché prima di entrare in casa, magari in forma di gatto nero, la strega si sarebbe dovuta fermare a contare tutti gli stecchi della saggina e poi i chicchi di sale grosso sparsi sulla soglia. Avrebbe avuto tanto da fare che ci sarebbe stato il tempo di far ritorno e il sole del mattino l’avrebbe messa in fuga. Ci fu la cena: lumache, porchetta, insalata e poi il concertino ambulante: “La Sora padrona, lo dicono tutti che belli preciutti, che belli preciutti te fanno incantà…”

Al pomeriggio c’era stata la sfilata dei carri. Si mormorava che uno era stato proibito perché raffigurava la testa del Duce. Ma forse era solo una diceria. Corse al sacco, albero della cuccagna, lotteria. In quella confusione, fra grida e campanacci, venditrici di garofani e spighetta, spintonato da tutte le parti, malgrado la difesa della famiglia compatta, ad un certo punto mi calò il sonno. Ma c’erano da vedere i baracconi delle meraviglie che si allineavano lungo l’odierna Via Sannio. Vidi l’indiano che mangiava il fuoco, un negro che si bucava le guance attraversandosi la bocca con uno spillone da parte a parte, l’indovina che leggeva nella sfera di vetro e infine Teresinona. Il padiglione di Teresinona era a forma di casetta. Ci saranno entrate venti persone per volta. Teresinona stava in piedi sul tavolino. Aveva i capelli alla gallonne e un gran fiocco celeste in mezzo alla testa. Era sbracciata e vestita con un tutù. Soltanto che lei stessa garantiva di pesare duecento chili e invitava gli spettatori che non c’era trucco: “Toccate. Toccate sono tutta ciccia”. Specialmente le donne si avvicinavano. Poi commentavano che non era più tanto giovane perché aveva le smagliature alle cosce. Teresinona era avvolta da una nube di borotalco. E io caddi addormentato, sfinito dalla giornata, sulla spalla di mio zio che, guarda il destino, si chiamava Giovanni Battista. Nella mia ciondolante posizione, oltrepassando le mura del sonno, mi giungevano ancora i rumori della festa. Ad un tratto mio zio mi risvegliò. «Guarda» mi disse. Il glorioso sole di giugno illuminava l’antica porta e la cupola azzurra trapunta di stelle d’oro d’un carretto a vino che entrava in città. Di tanto in tanto nell’aria schioccava la frusta e tintinnavano i campanelli che adornavano le teste dei cavalli.
“Fiore de fosso mo t’ho portato a Roma e te ce lasso, ciavrei da segutà; ma più nun posso”.

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