MONICA VITTI

IL MITO DI MONICA VITTI

Maria Luisa Ceciarelli venne al mondo la mattina di martedì 3 novembre 1931 in via Francesco Crispi a pochi passi da piazza di Spagna. Suo papà Angelo era un ispettore del commercio estero nato a Roma che, dopo poco tempo dalla nascita di Maria Luisa si vide costretto a trasferirsi in Sicilia con la famiglia: la moglie Adele bolognese e i suoi figli Giorgio ed appunto la piccola Maria Luisa che crebbero a Messina per circa otto anni. In quel periodo la piccola fu soprannominata scherzosamente dai familiari «setti vistìni» per via della sua freddolosità che la portava a indossare i vestiti l'uno sull'altro (Sette sottane, traduzione del nomignolo infantile diventò poi il titolo del primo libro autobiografico della futura Monica Vitti). Dopo poco tempo sempre per motivi di lavoro Angelo e la sua famiglia si trasferirono a Napoli nel quartiere Vomero. L'Italia era in guerra e dopo pochi anni quella bella casa affacciata sul mare venne distrutta da un bombardamento. Così la famiglia Ceciarelli torno a Roma. Maria Luisa aveva da poco compiuto12 anni e scoprì la passione per il teatro durante i bombardamenti della guerra, mentre - racconta lei stessa - giocava nei ricoveri antiaerei sotterranei inscenando i burattini con il fratello per dilettare i rifugiati, distraendoli così da un periodo molto buio. Perciò, tornata nella capitale, a 14 anni entrò in teatro.

Finita la guerra Maria Luisa si getta anima e core negli studi di recitazione. Sentendo il richiamo delle tavole del palcoscenico decide di darsi una formazione più completa seguendo i corsi della prestigiosa Accademia d’Arte Drammatica, fondata solo un decennio prima dallo scrittore Silvio D’Amico, un istituto universitario di alta formazione artistica.

Su consiglio di Sergio Tofano (creatore del signor Bonaventura), in quegli anni fu invitata ad adottare un nuovo nome più fluido, più artistico. Allora Maria Luisa si mise a tavolino e scelse metà del cognome di sua madre, Vittiglia, alla quale era molto legata e che aveva perso da poco tempo, e al cognome associò il nome Monica che aveva appena letto in un libro e le suonava più breve e gradevole del suo. Cosi venne forgiato il celebre appellativo artistico «Monica Vitti» che le si appiccicò addosso fino all'ultimo giorno della sua vita e che da allora la accompagnò sino ad essere considerata ancor oggi la quintessenza del cinema italiano, del quale fu per molti anni una delle regine incontrastate. Fra le attrici della sua generazione Monica Vitti è una delle poche che è riuscita a passare da ruoli drammatici e autoriali a ruoli scanzonatamente umoristici o addirittura comici con una grazia e una leggerezza diventata nel tempo leggendarie.

Monica si fece notare già durante il periodo all’Accademia e si diplomò nel 1953, insieme al regista Luca Ronconi e ad altri futuri protagonisti della scena teatrale e cinematografica. Sul palcoscenico teatrale la giovane artista diede subito prova di versatilità passando dai ruoli shakespeariani più drammatici alle commedie di Molière.

All’inizio, come per molti altri, il cinema fu solo un modo per guadagnare soldi facilmente fra una tournée teatrale e l’altra. Già a metà degli anni Cinquanta interpretò piccole parti in commedie disimpegnate come «Ridere, ridere, ridere» (1954) o «Le dritte» (1958) dove recitò accanto alle allora più note Sandra Mondaini e Bice Valori.


A scoprire il suo bel volto, affascinante, asimmetrico, capace di essere buffo e che poteva esprimersi paradossalmente sulle corde della più intensa drammaticità fu il grande Michelangelo Antonioni, che la scelse come protagonista per il suo «L'avventura» (1960), con Gabriele Ferzetti. La lavorazione del film, per carenza di budget, scioperi delle maestranze e difficoltà logistiche, si rivelò veramente avventuroso, ma il risultato permise a Monica Vitti di entrare subito nel gotha del cinema. L’avventura, anche oggi considerato uno dei capolavori di Antonioni, vinse il Premio della Giuria al Festival di Cannes. Con questo lungometraggio iniziò un’intensa e scandalosa relazione amorosa fra l’attrice e il regista di quasi vent’anni più vecchio.


Nel corso degli anni Sessanta, la Vitti fu protagonista di alcuni fra i più bei film di Antonioni, a partire dall’esistenziale «La notte» (1961) dove recitò con Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau. All’angoscioso dramma dell’incomunicabilità de «L'eclisse» (1962), dove il suo partner fu il bellissimo ventiseienne Alain Delon. Fino a quello che probabilmente costituì il vertice delle sue prove di recitazione drammatica, la parte di Giuliana nel drammatico «Il deserto rosso» (1964), che segnò anche la fine della relazione con Antonioni.


La metà degli anni Sessanta fu un periodo di crisi per la trentacinquenne Monica Vitti, stanca di essere identificata nella musa dell’artista o nell’emblema della nevrosi femminile. Si trasferì così nella Swinging London che a quell'epoca aveva come artefici principali i Beatles. Monica capì che il mondo artistico stava evolvendo e si sintonizzò verso quella direzione, verso una rivoluzione culturale connessa con ottimismo ed edonismo. Si mise così a disposizione di Joseph Losey che la volle come protagonista dello spionistico «Modesty Blaise» la bellissima che uccide” (1966), tratto da una serie a fumetti maliziosa e scanzonata. Il film ebbe poco successo, ma ma fu in seguito recuperato come uno dei classici del “camp d'autore”.

L’esperienza di «Modesty Blaise» convinse Monica a tornare alla sua vena originaria e a dedicarsi a tempo pieno alla commedia all’italiana. Film come «La ragazza con la pistola» (1968) diretto da Monicelli e «Amore mio aiutami» (1969) girato al fianco di Alberto Sordi, la consegnano alla popolarità di massa come una delle icone del cinema brillante italiano nel decennio successivo.


Fra il 1968 e il 1979 colleziona ben cinque David come Miglior Attrice ed è l’unica a recitare in rapida successione con tutti i più famosi mattatori della commedia all’italiana, Gassman, Sordi, Giannini e Manfredi, riuscendo sempre a tenere testa a questi giganteschi e invadenti partner. Ancora oggi è possibile ammirarla in televisione in classici del genere quali «Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca» (1970) di Scola. «Teresa la ladra» (1972) di Brian Di Palma. «Polvere di stelle» (1973) di Alberto Sordi o «L’anatra all’arancia» (1975) di Luciano Salce. Nel 1980, Antonioni la vuole un’ultima volta in un film drammatico per la TV, il tragico «Il mistero di Oberwald» ispirato a un dramma di Cocteau. Nel film Monica interpreta una regina vedova e sola che si lascia assassinare da un anarchico.


L’attrice, ormai considerata una delle più importanti dive italiane, fatica a trovare nuove sfide in un cinema asfittico e in crisi come quello dell’Italia anni Ottanta. Le commediole di Steno o Corbucci, pur gradevoli e ancora amate dal pubblico televisivo, non riescono ad arrivare ai livelli di graffiante comicità del decennio precedente, riducendosi un po’ a meccanica esibizione di bravura attoriale. Sono di questo periodo film come «Non ti conosco più amore» (1980). «Il tango della gelosia» (1981) o il drammatico «Io so che tu sai che io so» (1982).


Nel 1990, Monica Vitti esordisce come regista, sceneggiando e dirigendo «Scandalo segreto» premiato con il David di Donatello come Miglior Esordio dell’anno, ma la maggior parte delle sue apparizioni nel corso degli anni Novanta sono ormai solo televisive. Nel 1995 riceve, a Venezia, il Leone d’Oro alla Carriera, annunciando poco dopo il suo ritiro definitivo dalle scene e dalla vita pubblica.

Seducente e seduttiva, anche grazie ai suoi difetti: con quella voce un po’ così, roca e graffiata, una “vociaccia”, come lei stessa l’ha sempre definita, e il naso importante che molti produttori non volevano, spingendola a modificarlo chirurgicamente:

«Il mio naso non piaceva ai produttori. Ma non ho mai avuto la tentazione di cambiarlo. E alla fine abbiamo vinto noi, io e il mio naso»  Sempre così stupendamente coerente con se stessa, gioiosamente carnale, fascinosa anche per la mancanza di ostentazione della propria bravura e dei premi vinti, ironica e autoironica, golosa di cibo, di allegria e di risate. Eppure Monica Vitti rimane un mistero indecifrabile tra i mille volti di donne interpretate: perché poi fu proprio questo il suo segreto, ed è anche il segreto della sua tenace ed eterna giovinezza.

Ci ha lasciati mercoledì 2 febbraio 2022 nella sua casa di via Angelo Brunetti a due pasi da Piazza del popolo. Aveva novanta anni. Ma noi la ricordiamo sempre eternamente bellissima, giovane e ironica con la sua educata ed effervescente romanità che le sprizzava da tutti i pori. Se n'è andata dopo una lunga malattia.

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