Alberto Moravia

ALBERTO MORAVIA di Claudio Di Giampasquale

Moravia è stato il primo scrittore italiano che abbia fatto del romanzo uno strumento d’arte e insieme una forma di comunicazione più ampia, in rapporto diretto con l’evoluzione della società e con i problemi del tempo in cui visse. Molti dei suoi migliori romanzi e racconti sono incentrati sulla decadenza morale della classe borghese sotto il fascismo: un mondo torbido, dominato dalla frenesia del sesso e dall’indifferenza morale.

Alberto Pincherle (Moravia era il cognome della nonna paterna) nacque a Roma di giovedì 28 novembre 1907, secondo di quattro figli. Interessanti sono gli intrecci familiari, che ben descrivono la temperie culturale nella quale si formò. Venne alla luce nel quartiere Pinciano in via Giovanni Sgambati da un'abbiente famiglia borghese, il padre Carlo Pincherle era un architetto e pittore d'origine ebraica, mentre la madre Teresa Iginia De Marsanich detta Gina era di origini dalmate e di religione cattolica.

L’adolescenza non fu felice, Alberto venne colpito a nove anni da una seria forma di tubercolosi ossea che lo costrinse a letto per ben cinque anni, tre dei quali trascorsi a casa e due presso il sanatorio Codivilla di Cortina d'Ampezzo. Visse diversi momenti di ripresa e cedimento. Nel 1925, lasciato il sanatorio, si fermò a vivere per qualche tempo a Bressanone e lì iniziò a scrivere il suo primo romanzo, senza sapere cosa stesse facendo, imparando a scrivere giorno dopo giorno nel confronto con la pagina bianca e i suoi suoni. Era ancora molto debole, per cui scriveva a letto, su della sottilissima carta velina che a volte si rompeva e l'inchiostro andava a macchiare le lenzuola. Non sapeva cosa stesse facendo, non aveva progetti concreti se non l'idea di scrivere un dramma mascherato da romanzo. Buttava giù mezza pagina al giorno; prima di scriverla se la ripeteva in mente alcune volte, poi la leggeva ad alta voce perché a guidarlo era soprattutto un istinto di narrazione orale, difatti separava le frasi con delle lineette, completamente digiuno di punteggiatura non avendo mai messo piede in una scuola.

La lavorazione del romanzo durò tre anni e vide quattro stesure, nelle ultime due iniziò a buttare dentro, un po' a casaccio, "come il sale nell'insalata" amava ripetere, segni d'interpunzione vari nel tentativo di dare alla sua prosa un ritmo narrativo. Poi un giorno, dopo quasi tre anni di lavoro, decise che non aveva più niente da dire e la scrittura non poteva più essere né migliorata né modificata. Gli Indifferenti era ultimato. Il primo lettore si dice fu un libraio, un certo Dore, al quale il romanzo piacque e incoraggiò il giovane artista, cosa che a seguire fece anche Andrea Caffi.

Nel frattempo era entrato nel gruppo di Massimo Bontempelli che ruotava intorno alla rivista 900. Ad una riunione della rivista, quasi con fare goliardico, tutti i redattori si impegnarono, da lì a un anno, a presentare un romanzo che poi l'editore della rivista avrebbe pubblicato.

Alla scadenza, e si era già nel 1928, l'unico a presentare il romanzo fu il ventenne Alberto. L'editore della rivista, Lironcoruti, lo lesse e lo restituì definendolo "una nebbia di parole" e lì si chiuse l'ipotesi di pubblicazione.

Essendo già esperto di malattie e medici e cure, il giovane Alberto sapeva che ad un primo parere ne va fatto seguire quantomeno un secondo e, se è il caso, anche un terzo e un quarto.

Il secondo tentativo lo fece con Cesare Giardini della casa editrice Alpes di Milano. Dopo avere consegnato il manoscritto, nell'illusione che il responso di lettura sarebbe arrivato a breve, Alberto andò a trascorrere un mese sul Lago Maggiore, a Stresa, nello stesso albergo che aveva ospitato Hemingway. Trascorse il mese a fare lunghe passeggiate e a corteggiare la barista dell'hotel che però non lo prese mai sul serio. Alla fine si rese conto che Giardini non gli avrebbe risposto a breve e se ne tornò a Roma.

Ci vollero sei mesi prima che l'Alpes si pronunciasse. Con una lettera Giardini si complimentava per il bel libro scritto e la casa editrice si dichiarava lieta di pubblicarlo.

Non molto tempo dopo seguì una seconda lettera, in questa Giardini spiegava che la casa editrice non aveva soldi (era un periodo non felice per l'editoria, Treves aveva difatti appena chiuso i battenti) e pertanto non poteva presentarsi al consiglio di amministrazione proponendo la pubblicazione di un esordiente sconosciuto: in sostanza chiedeva alla famiglia Pincherle di sborsare 5000 lire (una cifra approssimabile a 15.000 euro odierni) per pagare le spese di pubblicazione.

L'austero signor Pincherle, senza tentennare, appena il figlio gliene parlò, firmò un assegno che segnò tra le note spese mensili.

Un mese dopo l'assegno, ricorderà poi il maturo Alberto Moravia, nel ricevere le bozze del romanzo, gli vennero le lacrime agli occhi, ed erano lacrime di gioia.

La prima volta che vide il libro pubblicato fu invece a Viareggio. Gli Indifferenti era appena uscito e le librerie lo esponevano in vetrina, e anche in quella occasione, nel vedere il suo nome sotto al titolo del suo lavoro, si commosse, ma senza lacrime stavolta. Adesso iniziava il bello, ma il giovane e inesperto esordiente non era preparato ad affrontarlo. Su pressioni del suo editore si presentò nell'ufficio del critico letterario del Corriere della Sera, G. A. Borgese che lo accolse molto gentilmente. Gli fece omaggio del suo romanzo, ma al momento della dedica si bloccò e con candore e ingenuità mascherati da arroganza chiese "Lei come si chiama? Anton Giulio o Giuseppe Antonio?". L'interlocutore, senza più di tanto scomporsi, rispose chiedendo "Lei è così avvenirista da permettersi di ignorare il mio nome?" Quella sera il giovane romanziere decise di rituffarsi nella vita reale, di lasciare per qualche tempo il mondo narrativo ed editoriale: andò con una prostituta incontrata in corso Vittorio Emanuele e decise di programmare un viaggio a Zermatt dove poi si innamorò di una ragazza francese (il giovane autore si innamorava molto spesso) e non pensò più al suo romanzo.

Malgrado il disinteresse del suo autore, Gli Indifferenti diventò un successo. Nel volgere di alcuni mesi ne furono vedute 4 edizioni da 1000 copie l'una. I maggiori critici dell'epoca lo recensirono: Guido Piovene, Giuseppe Ungaretti, Cesare Zavattini, Margherita G. Sarfatti, Pietro Pancrazi, Sergio Solmi, Gugliemo Alberti… anche Giuseppe Antonio Borgese lo recensì definendo Moravia "un giovanissimo a cui bisogna badare" e avvertiva che "Gli Indifferenti potrebbe essere un titolo storico".

Finalmente, dopo il successo dei romanzi di D'Annunzio di 40 anni addietro, dopo la conseguente ostilità nei confronti della narrativa propugnata dai movimenti letterari quali la Ronda e la Voce, l'attesa per un romanzo italiano (alimentata dalla collezione dei classici russi della casa editrice Slavia) sembrava essere stata finalmente appagata.

Anche il Fascismo si accorse di quest'autore che negava la rigenerazione sociale operata dalla rivoluzione fascista e il primo anatema fu scagliato, paradossalmente, da uno dei proprietari della casa editrice Alpes, che altro non era che il fratello del dittatore, Arnaldo Mussolini: "Vorremmo sapere se la gioventù italiana deve leggere i libri di Dekobra, inventore di facili avventure decadenti, di Remarque, distruttore della grandezza della guerra, e di Moravia, negatore di ogni valore umano."

Negli anni successivi il giovane esordiente pagherà il conto di un esordio così riuscito e fulminante. Da un canto il regime gli vieterà di pubblicare e le leggi razziali lo obbligheranno a rifugiarsi sulle alture dei monti della Ciociaria; dall'altro canto, quello narrativo, la scrittura di un romanzo così impegnativo all'età di 17 anni lo lascerà svuotato e senza un retroterra a cui attingere. A questa disidratazione creativa si devono i romanzi, tutt'altro che riusciti, Le ambizioni sbagliate (un lavoro molto cervellotico la cui stesura lo occupò per ben 7 anni) e "La mascherata", romanzo satirico su un dittatore coinvolto in una cospirazione; storia che in un primo momento ottenne il nulla osta mussoliniano, ma subito dopo venne ritirato e a nulla servirono le richieste pressanti a Galeazzo Ciano che si racconta lesse il libro durante un viaggio di lavoro che lo conduceva in Germania da Hitler.

Bisognerà attendere il 1942, quindi ben 12 anni, prima che, con "Agostino"ritrovi una voce propria e consolidi il suo essere scrittore.

«Tutto nella mia vita mi sembra casuale, tranne i libri che ho scritto», ha dichiarato Moravia. I libri sono stati la sua vita, il mezzo per svolgere un compito nella società a lui contemporanea. La grave malattia sofferta lungo l’infanzia e la prima giovinezza aveva probabilmente acuito la sua sensibilità, facendo venire alla luce un’acuta capacità di osservare il mondo.

«Mi sento molto vicino a quello che pensavano i Greci, che l’arte sia figlia della memoria, e la memoria è sempre memoria di cose avvenute, e non di cose che non sono state». Anche queste sono parole di Moravia, considerato lo scrittore più ‘razionale’ del Novecento italiano. Come nella sua narrativa non trova posto nessun elemento fantastico, nella lingua che usa non vi è nessuno ornamento, nessuna astrazione. Le parole sono quelle del linguaggio comune, la frase è asciutta e chiara. Eppure questo scrittore così concreto, così brusco e determinato a nominare con termini essenziali tutto ciò che vedeva e pensava, ha reso evidente l’aspetto ambiguo e illusorio della realtà.

Una cosa è una cosa è una sua raccolta di racconti, dal titolo programmatico, che riassume l’aderenza quasi ossessiva dello scrittore alla realtà. Tutto va guardato e considerato come ‘cosa’: oggetti, colori, lineamenti fisici, vestiti, la stessa persona. Questo è il limite invalicabile del mondo così com’è, cioè come appare.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale la fama di Moravia è cresciuta ininterrottamente sia in Italia sia all’estero. I suoi libri uscivano contemporaneamente in italiano e in inglese, molti di essi erano tradotti in film da registi come Vittorio De Sica (La ciociara), Jean-Luc Godard (Il disprezzo), Bernardo Bertolucci (Il conformista). Non erano solo i romanzi a dargli fama, erano anche i resoconti dei suoi viaggi, soprattutto in Africa (A che tribù appartieni, Lettere dal Sahara), in Cina, in India, anch’essi testimonianza di una vocazione morale, un’insaziabilità di conoscere attraverso il confronto con società e culture diverse da quella occidentale.

A partire dagli stessi anni Moravia ha conquistato un crescente prestigio. Gli interventi sull’attualità politica e sociale, pubblicati su quotidiani, settimanali e sulla rivista Nuovi argomenti, da lui fondata nel 1953, i saggi di tipo letterario e filosofico-politico raccolti nel volume L’uomo come fine (1963) hanno definito il suo ruolo d’intellettuale nella società non solo letteraria: una figura sicuramente scomoda per l’insofferenza nei confronti di qualunque ideologia o misticismo, ma autorevole per coerenza e onestà intellettuale.

Moravia, le memorie dalla città tra pioggia, delusione e frastuono di Paolo di Paolo

«Non so da dove venisse la polvere. Allora la polvere era dappertutto. Il vento portava la polvere della campagna. Roma allora era una città di campagna». I primi ricordi di Alberto Moravia tornano a una palazzina di quattro piani su via Sgambati: la casa in cui è nato, dalle mura «color biscotto», di fronte a Villa Borghese. Intorno, c' era un giardino piccolo e folto coltivato da un padre architetto veneziano, innamorato della sua città natale e del mangiare rustico, con molta cipolla e molto aglio. La sera, «cascasse il cielo», questo padre raggiungeva un caffè di via XX settembre: «Faceva via Po, via Romagna, sempre a piedi». Una volta, portò il figlio con sé: «Conobbi i suoi amici. Mi annoiai moltissimo». Il ragazzo Alberto aveva quasi quindici anni. È proprio a quel periodo che fa risalire i primi segni di un legame complicato con Roma: «Sono nato e vissuto a Roma e ho avuto sempre gli stessi problemi insoluti e insolubili nel mio rapporto con la città».

Possibile? In uno scritto del 1975 - dal titolo netto: Delusione di Roma - è perentorio: parla di un luogo che, prima della seconda guerra mondiale, era ancora quello descritto da Goethe e da Stendhal. «Una piccola città mediterranea, quasi più piena di monumenti che di case», che ha tentato sempre invano di trasformarsi in una vera capitale europea. «Una capitale, dunque, tra le tante cose, è o dovrebbe essere un modello per l' intera nazione», ma Roma - sostiene Moravia, nell' inedita veste di romano anti-romano - non c' è mai riuscita. È provinciale, dice; non è raffinata, è «statale»: «lo è proprio perché lo Stato non c' è, perché non è mai riuscito a oltrepassare la fase burocratica». Moravia si mostra indifferente verso il centro monumentale, «eroso e insignificante»; critico nei confronti del «buonsenso qualunquista», del proverbiale vivere o sopravvivere alla giornata, e perfino della «gastronomia pesante».

«La Roma di Stendhal - spiegava nel ' 56 - era il centro propulsore di una Chiesa universale e la capitale di uno Stato di butteri e di pecorari. A partire dal 1870 è anche diventata la capitale del Regno e quindi della Repubblica d' Italia. Ma la Chiesa c' è ancora, più che mai; e i butteri e i pecorari non se ne sono mai andati. Pecorara e buttera è la cucina romana oggi come ai tempi di Stendhal, basata sul greve abbacchio con le patate al forno, sugli spaghetti alla amatriciana con il lardo e il pecorino». Perché tanta insofferenza? L' allergia al sentimentalismo impedisce a Moravia di indugiare sulle bellezze della capitale, «eterna perché nulla vi cambia». Parlando dei suoi libri, la riduce a uno «sfondo convenzionale e di comodo, così come avviene in certi drammi italiani del ' 500».

Eppure, la Roma piovosa degli Indifferenti, lontana al di là dei vetri «imperlati di vapore», come «dissolta» in un lago d' acqua, è una presenza-assenza non trascurabile e perfino inquietante. La ciociara si apre su Vicolo del Cinque. La noia, su via Margutta. I Racconti romani sono ricchissimi di dettagli, anche toponomastici.

Simili ad acquerelli o a sonetti belliani, risultano affollati di finestre («il cielo di Roma, da tutte le finestre»), di tetti, di cupole e di campanili. «Non mi sono mai mosso da Roma - dice uno dei tanti personaggi - , ma dentro Roma sì che mi sono mosso». Alla rinfusa, Trastevere, Garbatella, San Paolo, Monte Mario, piazzale Flaminio, il Foro italico. «Le strade di Roma, nessuno può conoscerle tutte. Però, più o meno, a naso, si indovina».

Via di Santa Sabina, il Circo Massimo, il Colosseo. C' è un luogo di Roma che non sia nominato, in questi racconti? Moravia appunta un nome, un minuscolo dettaglio, solo se necessario, poi corre via. Talvolta, racconta, ma in fretta, anche il cielo, il vento umido che viene dal mare, l' aria di scirocco «che appiccica», la tramontana che fa soffrire, la pioggia.

Può fermarsi per un istante davanti a un panorama notturno: dal Pincio, «si vedeva tutta Roma, simile a una torta nera bruciata, con tante crepe di luce, e ogni crepa era una strada». Il Tevere può capitare di vederlo «girare come una serpe per la campagna, con la luce abbagliante del cielo rannuvolato sulla pelle gialla e grinzosa». Lo spirito con cui Moravia descrive Roma è quello dei suoi personaggi che, abitandola da sempre, vi sono sprofondati.

Sono parte di essa, non la vedono più. La riconoscono, a volte, in uno stupore intermittente, e comunque sannoa memoria le pietre e i gatti, le voci e le facce dei dintorni, come in paese. E c' è tutto un brusio, un frastuono di parole dettee urlate, mezzi di trasporto, campane, cani che abbaiano. Ad Antonio Debenedetti Moravia spiegò che nei suoi racconti e romanzi Roma non ha funzione sulla psicologia dei personaggi. Solo nel caso di uno degli ultimi libri, Il viaggio a Roma (1988), la capitale «definisce e determina i problemi del protagonista»: il ventenne Mario, «con le suole di vento», che arriva da Parigi per cercare suo padre. Si muove tra piazzale delle Belle Arti, via Ammannati, via Bertoloni.

Da Villa Balestra «il panorama di Roma si stendeva, senza luce, velato dall' afa, fino alla remota, minuscola cupola di San Pietro». La città irretisce Mario, lo scuote, in giornate lunghe e spiritate.

Moravia accompagna il personaggio, lo segue da lontano, con occhi nuovi e curiosi, per le strade di Roma. Come se finalmente anche lui, lo scrittore, la scoprisse davvero. Proprio adesso che sta per lasciarla. «Il viaggio a Roma - dice l' ultima riga del romanzo - era finito».

Share by: