CENTRALE MONTEMARTINI

MUSEO DELLA CENTRALE MONTEMARTINI di Claudio Di Giampasquale

Il Museo della Centrale Montemartini è un luogo suggestivo e misterioso in cui il candore di antiche sculture in marmo si contrappone al nero e al freddo degli imponenti meccanismi di ferro dell’impianto termoelettrico ora dismesso. L’accostamento di questi due materiali così diversi l’uno dall’altro genera un contrasto che incanta il visitatore fino a lasciarlo senza fiato. È uno straordinario esempio di riconversione in sede museale di un edificio di archeologia industriale. La struttura ha una storia gloriosa, situata sulla via Ostiense con ingresso al civico 106, è l’area di più antica industrializzazione della città di Roma e primo impianto pubblico di produzione di elettricità della Capitale. La centrale fu costruita agli inizi del Novecento tra i Mercati Generali e la sponda sinistra del Tevere, e fu inaugurata nel 1912.

Fu l’architetto Francesco Stefanori alla fine dello scorso secolo che ebbe l’idea innovativa e sfrontata di darle un ruolo che non le appartiene, ovvero di trasformarla in un museo di arte antica. L’ennesimo a Roma, verrebbe da dire. Sì, forse, ma con un’anima tutta sua. Inizialmente, siamo nel 1997, fu allestita una mostra temporanea nella quale oggetti d’arte antica, statue romane in marmo bianco, erano poste sullo sfondo dei macchinari in ghisa. L’idea piacque e la mostra divenne permanente. Così venne trasferita qui una selezione di sculture e reperti archeologici dei Musei Capitolini, il progetto fu tutt’altro che semplice. La società ACEA restaurò l’intero corpo centrale dell’impianto, comprese la sala macchine e la sala centrale. Rimise a nuovo ogni cosa. Non solo fece tornare all’antico splendore la struttura architettonica dell’impianto, ma ricollocò al suo interno i suoi più suggestivi macchinari, come una turbina a vapore, datata 1917 e alcuni grandi motori diesel. I vasti spazi così recuperati divennero di nuovo agibili, scanditi dai giganteschi macchinari superstiti che furono considerati più che mai adatti per sperimentare nuove soluzioni museografiche.

Archeologia e «archeologia industriale» due mondi diametralmente opposti furono accostati tramite un allestimento coraggioso, nel quale lo spazio fu organizzato in modo che gli oggetti preesistenti e ciò che si voleva mostrare rimanessero integri e non si snaturassero a vicenda. In sintesi un gioco di contrasti tra le Macchine e l'antica archeologia romana che che da esperimento temporaneo, dal 2001 divenne mostra permanente: il Museo della Centrale Montemartini, che divenne così sede distaccata dei Musei Capitolini, esponendo opere che erano rimaste negli anni chiuse nei depositi e sottratte al grande pubblico. Nel novembre del 2016, a seguito di alcuni lavori di ristrutturazione il museo è stato ampliato con l’apertura di una nuova sala, dove sono esposte le famose carrozze del Treno di Pio IX.

Storia della Centrale termoelettrica Giovanni Montemartini di Antonio David Fiore

Roma non è mai stata una città “industriale”. Fino alla seconda metà dell’Ottocento il suo status di capitale dello Stato Pontificio la pone ai margini del generale panorama europeo in cui le grandi capitali vengono interessate da impetuosi fenomeni di evoluzione urbanistica, economica e sociale.

Dopo il 1871, assunto il rango di capitale del neonato Regno d’Italia, la città è oggetto di serrati dibattiti che cercano di avanzare una idea coerente che applicata faccia della piccola cittadina la degna sede dello stato unitario post-risorgimentale. Ma fin dall’inizio sembra emergere chiaro tra le fila della classe dirigente una sorta di timore più o meno dissimulato nei confronti della possibilità di porre le basi per uno sviluppo propriamente industriale della città.

Quintino Sella, Ministro delle Finanze tra il 1862 e il 1873, desiderava che Roma rappresentasse la parte “direttiva” e “intellettuale” della nazione, evitando che si ponessero le basi per la formazione di “grandi agglomerazioni di operai” non essendo opportuni “gli impeti popolari di grandi masse”. Le sue ragioni vengono riprese da Francesco Crispi (Primo Ministro dal 1887 al 1891 e dal 1893 al 1896) e divengono di fatto linea politica costantemente applicata per tutta la prima metà del XIX secolo (ventennio fascista compreso) fino al secondo dopoguerra.

Nonostante questi ostacoli di natura politica lo sviluppo della città determinò la necessità di impiantare strutture, opifici e fabbriche che garantissero i servizi di cui la popolazione, in costante crescita, aveva bisogno.

È proprio questa tipologia di industrie che costituiscono, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il nucleo fondamentale del primo quartiere industriale di Roma: l’Ostiense. Il quartiere Ostiense si sviluppa intorno all’omonima via consolare (la più antica) che da Porta San Paolo puntando verso est congiunge la città con il suo porto.

A fine Ottocento non è altro che una distesa di campi e orti attraversata da piccole marrane confluenti nel Tevere, caratterizzata da sparse casupole e qualche cappella, nel mezzo del quale si erge solitaria la Basilica di S. Paolo fuori le Mura. Ma la vicinanza del fiume, che in questo tratto si era ormai lasciato alle spalle il centro cittadino, la presenza della strada consolare e del raccordo ferroviario tra Roma e Civitavecchia e la collocazione esterna rispetto alle Mura Aureliane, che sancivano il confine daziario, rendevano l’Ostiense il posto ideale per collocare infrastrutture ormai vitali o trasferirvi attività che precedentemente erano collocate in posti giudicati inopportuni (come l’Officina del Gas che insisteva prepotentemente sull’area del Circo Massimo, o il Mattatoio presso Piazza del Popolo).

Impulso fondamentale venne dalla Giunta guidata da Ernesto Nathan, divenuto Sindaco nel 1908 come espressione di una maggioranza definita “Blocco Popolare” formata da componenti progressiste e socialiste. Nathan intraprese un vasto programma volto a distruggere i monopoli esercitati dalle compagnie private sulla produzione di servizi di pubblica utilità (elettricità, trasporti, gas) creando delle aziende municipalizzate in grado di introdurre un regime di concorrenza a maggior vantaggio degli utenti. In questo contesto nasce l’Azienda Elettrica Municipale (AEM) e viene costruita, in un area di circa 20.000 mq tra la via Ostiense e l’ansa del Tevere, la Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini, il suo primo impianto di produzione. Come misura di contrasto la società privata che dal 1856 si occupava dell’illuminazione dell’Urbe, la Società Anglo Romana, costruì a ridosso della proprietà municipale la Centrale Termoelettrica San Paolo, caratterizzata da una impostazione tecnico-architettonica completamente diversa. I due impianti hanno continuato a fronteggiarsi e a sfidarsi visivamente fino ai primi anni ’60 quando la Centrale San Paolo, divenuta proprietà dell’Ente Nazionale Energia Elettrica, è stata completamente abbattuta. Il 22 maggio 1908 il progetto esecutivo generale venne presentato al Consiglio Comunale dall’ Assessore al Tecnologico Giovanni Montemartini che della municipalizzazione fu il più agguerrito fautore (e alla cui memoria la Centrale verrà intitolata nel 1914) . La centrale termoelettrica doveva produrre una potenza media di 7500 Kw e veniva affiancata ad un impianto idroelettrico da costruirsi sulle rive dell’Aniene. In questo modo si prevedeva di affidare alla centrale idroelettrica il compito di rispondere alla richiesta media quotidiana e di affidare alla centrale termoelettrica il compito di intervenire nelle ore di maggior carico.

La proposta venne approvata e al fine di coinvolgere totalmente la cittadinanza si decise l’indizione del primo referendum nella storia di Roma. Il 20 settembre del 1909 si impose a schiacciante maggioranza il Si. Il progetto preliminare prevedeva la costruzione di un impianto tradizionale funzionante con caldaie e turbine a vapore.

Ma quando stavano per iniziare i lavori ai tecnici comunali pervennero delle proposte per l’installazione nell’officina di motori Diesel funzionanti ad olio pesante. Venivano presentati vantaggi non trascurabili e, valutata la proposta, i tecnici comunali decisero di accettarla. Venne di conseguenza bandita una gara e la ditta che avanzò l’offerta più conveniente fu la Franco Tosi di Legnano.

Cambiando il sistema di produzione si dovette mettere da parte il progetto originale. Gli Ingegneri M. Carocci e I. degli Abati, con la supervisione dell’Ingegner Corrado Puccioni formularono un piano completamente diverso dal precedente.

Il 25 gennaio 1911 con solenne cerimonia alla presenza di Vittorio Emanuele III venne posata la prima pietra e si avviò il cantiere affidato alla ditta di costruzioni in cemento armato dell’Ing. H. Bollinger di Milano.

Ma nel luglio dello stesso anno, un ispezione compiuta alle officine della Tosi a Legnano, mise in evidenza il grave ritardo nella esecuzione del contratto. Per rimediare i responsabili della Tosi proposero di sostituire uno dei motori con un Turboalternatore da 4000 Hp, provvisto di relative caldaie e accessori in quel momento in mostra presso l’Esposizione Universale di Torino.

I tecnici si videro costretti ad accettare e si passò quindi dal progetto di una centrale funzionante esclusivamente con motori diesel ad un sistema misto diesel/vapore che comportò un conseguente cambiamento anche nella organizzazione degli spazi del complesso.

Il 30 giugno 1912 venne inaugurata la Centrale Termoelettrica. Il complesso si presentava allora come un insieme che rivelava il suo stato di provvisorietà.

Presso l’ingresso lungo la via Ostiense, sulla sinistra, si trovava l’edificio costruito per ospitare il servizio di custodia e le famiglie dei responsabili dell’impianto. L’esterno non si discostava dai canoni tipici dell’architettura delle abitazioni private romane di inizio novecento. Sul piazzale nord prospettava imponente l’ampia facciata della Sala Macchine.

La struttura raggiungeva l’altezza di 23 metri, una lunghezza di 50 m, per una larghezza di 23 m. Il disegno generale intendeva esprimere, attraverso una combinazione eclettica di elementi classici, l’orgoglio dell’autorità municipale che provvedeva da sola alla produzione dei servizi per i suoi cittadini.

Non altrimenti si può giustificare la monumentalità del prospetto, mentre l’effetto di grande leggerezza determinato dalla presenza delle grandi finestre è dovuto probabilmente alla formazione ingegneristica degli autori Puccioni, degli Abbati e Carocci, che hanno ben presenti le esigenze di praticità funzionale necessarie in un edificio industriale.

La compresenza di esigenze funzionali e volontà di creare uno spazio altamente rappresentativo e decoroso si ritrova più accentuata all’interno. Le pareti laterali lunghe erano scandite dai pilastri su cui poggiavano le capriate paraboliche che reggevano il solaio. Quest’ultimo lungo l’asse principale si interrompeva per raggiungere uno quota più alta e formare un lucernaio con finestre a nastro. Il terrazzo di copertura era formato da una doppia soletta per favorire l’isolamento termico. L’aula era stata divisa in due aree distinte a seconda della tipologia di macchinario installato.

Lo spazio del lavoro veniva poi connotato attraverso una fascia alta circa due metri in «lapis ligneus» culminante con un fregio con un motivo decorativo a festoni, fiocchi e targhe che correva lungo tutto il perimetro. Una serie di eleganti lampioni in ghisa con globi sorretti da bracci arcuati illuminava l’interno. Sulla parete est era stato sistemato un grande schermo con lo schema dell’illuminazione pubblica. Lungo il prospetto ovest si ergeva l’edificio che ospitava il Quadro di Comando e la Sottostazione a 30.000 volt. Le soluzioni architettoniche già utilizzate nella facciata della Sala Macchine vennero rielaborate in una composizione più serrata e possente. Era stato progettato fin dall’inizio tenendo conto di un futuro ampliamento che avrebbe dovuto creare un prospetto unico parallelo alla via Ostiense. Per cui la struttura realizzata manifestava immediatamente con la sua evidente asimmetria la sua incompletezza. Le caldaie installate d’urgenza vennero ospitate in un edificio provvisorio nel piazzale sud mentre sulla sponda del Tevere venne realizzato l’Edificio Pompe.

Nel cortile est vennero infine sistemate altre strutture di servizio della centrale tra le quali la Torre Hamon, ossia l’impianto di raffreddamento dell’acqua in circolazione nei diesel, dalla singolare forma tronco-conica.

Entro il 1915 la Tosi completò la fornitura di motori diesel mancanti e negli anni seguenti installò nella Sala Macchine altre due turbine a vapore: una da 3000 Kw nel 1917 e una da 6000 Kw nel 19246 . Contemporaneamente si completò la Sala Caldaie n. 1 e se ne costruì una seconda affiancata alla prima nel 19247.

Due anni dopo si terminò anche il prospetto del complesso sulla via Ostiense con la costruzione di una seconda Sottostazione per la trasformazione dell’energia elettrica ad alto voltaggio proveniente dalle centrali idroelettriche situate lungo il corso dei fiumi Aniene e Nera.

Si tentò di rispettare le originali intenzioni di creare un insieme simmetrico e omogeneo riprendendo le soluzioni decorative precedenti e riadattandole, a volte contraddicendo anche la struttura interna.

L’avvento del fascismo segnò una fase di ulteriore trasformazione per il complesso che si avviava a raggiungere quell’assetto definitivo ancora oggi parzialmente leggibile.

Il 21 aprile del 1933, ripreso dalle cineprese dell’Istituto Luce, Benito Mussolini raggiungeva la Centrale Montemartini in cabriolet, saliva le scale della facciata salutato “romanamente” da dirigenti e tecnici, entrava nella Sala Macchine completamente rinnovata e dava l’avvio inaugurale ai due giganteschi motori diesel da 7500 Hp Franco Tosi, lunghi entrambi 23 metri, la cui costruzione aveva destato la meraviglia della stampa e rinnovato «l’orgoglio del genio italico».

Con la ristrutturazione si rinnovò anche l’aspetto decorativo della Sala Macchine. Lo spazio venne coperto di un nuovo pavimento decorato da tessere di mosaico che intorno alle macchine disegnavano cornici multicolori che permettono ancora oggi di ricostruire l’assetto originario e le successive trasformazioni.

Sulle pareti venne disteso uno zoccolo in finto marmo ocra che terminava sulla parte alta con una cornice sporgente più scura. Per collegare il piano della Sala Macchine e il secondo piano del Quadro si costruì una grande scala a doppia rampa in stile razionalista. Si aggiunsero sulla stessa parete lo stemma comunale e le spie che indicavano l’accensione dei motori diesel.

Ma i progetti del Duce per la Centrale termoelettrica comunale non si erano esauriti qui. Il regime intendeva autocelebrarsi nel 1942 con una grande Esposizione Universale che si sarebbe tenuta in un nuovo quartiere costruito ex novo a sud della città.

Si decise di potenziare ulteriormente la Centrale allo scopo di provvedere all’aumento di consumi previsto in occasione dell’evento.

La Tosi, insieme all’Ansaldo fornirono all’Azienda Governatoriale un nuovo Turboalternatore da 20.000 Kw con le relative caldaie. Per ospitare le due caldaie Tosi-Steinmüller a 45 atm si decise di abbattere la Sala Caldaie n. 1 e di costruire al suo posto una Nuova Sala Caldaie.

La struttura si innestò nel complesso primo-novecentesco con le sue linee tipiche dell’architettura del ventennio. Curiosamente però la facciata principale ripropone una distribuzione e una cadenza degli elementi (ingressi, scale, finestre) identica a quella del prospetto nord della Sala Macchine.

Le difficoltà dovute alle vicende belliche rallentarono inevitabilmente l’impresa che poté essere conclusa solo nell’immediato dopoguerra. Nel frattempo venne rinnovata anche la struttura di approvvigionamento di acqua della Centrale con un edificio nuovo, decisamente più massiccio, la cui costruzione inizia nel 1942.

In questi stessi anni si completa il nucleo storico del complesso della Centrale: l’Azienda delibera di fare di un ex-magazzino, situato tra la Sala Caldaie n. 2 e la Sottostazione a 60.000 volts, la Cabina di smistamento per sei linee in cavo a 60 Kv8

L’occupazione nazista e i bombardamenti subiti da Roma tra il ’43 e il ’44 colpirono anche la Centrale Montemartini ma i danni arrecati non furono particolarmente gravi. Al contrario, la centrale termoelettrica ex Anglo Romana con essa confinante, venne colpita e messa fuori uso. Di conseguenza la Centrale Montemartini fu l’unico impianto a garantire alla cittadinanza la fornitura di energia elettrica durante il periodo della liberazione.

Dopo il periodo di crisi postbellica l’Azienda comunale decise di intervenire nuovamente sulla Centrale Termoelettrica potenziando il macchinario a vapore esistente con l’aggiunta di una nuova caldaia Tosi-Steinmüller analoga alle due già in funzione, l’ampliamento della Sala Caldaie e la costruzione di un nuovo Carbonile a fossa di capacità pari a 7000 ton di carbone.

Lo sviluppo economico e tecnologico del periodo seguente posero l’Azienda, a metà degli anni ’60, nella condizione di arrestare definitivamente le macchine della centrale: le strutture del complesso erano ormai esauste, non sarebbe risultato più conveniente operare ulteriori rinnovamenti, né le macchine ormai antiquate garantivano un servizio adeguato.

Ma si continuò a sfruttare l’area il più possibile. Vennero abbattuti il carbonile e la Torre Hamon allo scopo di installare, tra il 1972 e il 1974, tre grandi turbine a gas ancora oggi funzionanti in caso di necessità. I locali dell’impianto vennero invece variamente utilizzati come magazzini, laboratori, officine, uffici.

Ad un certo punto si arrivò ad ipotizzare anche un completo abbattimento del complesso. Invece verso la fine degli anni ’80 presso la dirigenza dell’Azienda Comunale Energia ed Ambiente di Roma si affermò l’idea di attuare il recupero della vecchia Centrale Termoelettrica.

Il progetto venne messo a punto dall’Ingegner Paolo Nervi e si concentrò sul nucleo del complesso (comprendente la Sala Macchine e la nuova Sala Caldaie) dove si concentravano gli edifici e i macchinari storici. Scopo della ristrutturazione era quello di fare dell’impianto un centro polifunzionale che accostasse il patrimonio archeo-industriale da conservare e valorizzare con spazi per attività terziarie e direzionali.

La Sala Macchine, la Sala Caldaie e i rispettivi locali sottostanti vennero individuate come luoghi adatti alle finalità espositive. Gli edifici lungo il prospetto est del complesso (Sottostazione 60.000 volts; Quadro; Sottostazione 30.000 volts) vennero invece ristrutturati in modo da renderli funzionali ad un utilizzo come sede di uffici.

L’operazione pose i tecnici di fronte alla necessità di modificare le strutture per renderle il più possibile flessibili. Le soluzioni proposte erano due: lo smantellamento di parte del patrimonio meccanico o, in alternativa, la distruzione degli edifici lungo il prospetto sud del complesso, ovvero la Cabina smistamento cavi e la Sala Caldaie n. 210.

Si preferì conservare i volumi architettonici esistenti ed operare all’interno una selezione tra i macchinari. I lavori vennero iniziati nel 1989 e nel 1990 venne inaugurato il Centro Multimediale e Art Center Acea presso la Centrale Giovanni Montemartini.

Tutto il complesso venne interamente restaurato sugli esterni rispettando il più possibile le diverse linee architettoniche che lo caratterizzavano. L’intervento più rilevante fu senz’altro la collocazione nel piazzale di fronte la facciata principale della Sala Macchine di due storici lampioni ritrovati smontati nei depositi dell’Acea e risalenti al 189611.

La loro particolarità sta nella decorazione liberty ideata dall’artista romano Duilio Cambellotti, che ha il suo cardine intorno ad un giro di quattro fanciulle nude danzanti, i cui capelli terminanti in frecce rappresentano il trionfo dell’elettricità.

Le strutture individuate come sede di uffici e servizi vennero modificate negli interni cancellando qualsiasi traccia del passato. Gli spazi espositivi della Sala Macchine e della Sala Caldaie vennero invece recuperati rispettando l’apparato decorativo e parte del macchinario. È difficile rintracciare nell’operazione compiuta un criterio univoco o una linea di condotta caratterizzata da principi prestabiliti.

È assai probabile che il recupero sia stato attuato senza che ci fosse un’analisi storica approfondita come fondamento del progetto.

Allo stesso tempo sussisteva un interesse comune nei progettisti di conservare il più possibile dell’impianto che era stato il punto iniziale della comune storia aziendale.

Questo sovrapporsi di ragioni diverse, in un’operazione scientificamente incerta eppure totalmente nuova nel panorama romano dell’epoca, ha avuto come risultato un recupero che è ancora oggi ciò che di più avanzato si è fatto nel panorama dell’Archeologia Industriale a Roma.

L’intervento effettuato nel 1989 ha trasformato la ex Centrale Montemartini in qualcosa di diverso, ma non ha cancellato l’identità passata. Si è creata una sovrapposizione, un doppio registro di comunicazione più tardi sfruttato a pieno dalla Sovrintendenza Archeologica del Comune di Roma nel momento in cui nell’officina viene allestita la mostra «Le Macchine e gli Dei», nucleo dell’attuale straordinario museo.

È a partire da quel momento che nella coscienza di operatori e cittadini si è fatta largo l’idea di ripensare l’intero quartiere dell’Ostiense in maniera diversa.

Dagli anni settanta l’area non era altro che un luogo degradato, costellato da enormi strutture silenziose, arrugginite e inquietanti come è inquietante qualsiasi muta struttura di cui viene meno la comprensione venendo meno la funzione.

Perduta la possibilità di comprensione i ruderi avevano anche perso qualsiasi valore che non fosse quello puramente economico delle grandi aree ormai a ridosso del centro che essi occupavano.

Poteva essere fatto di loro qualsiasi cosa. Recuperata ad una nuova funzione, pubblica e culturale, la Centrale Montemartini ha ripreso a funzionare per la collettività, evidenziando l’enorme valore storico che essa possiede come testimonianza del nostro passato industriale. Ovvero della premessa della nostra attuale cultura tecnologico-scientifica.

Ecco allora che l’Ostiense diventa il cantiere dell’Archeologia Industriale romana, il «foro industriale» costellato di emergenze più o meno significative che, non più scomode e ingombranti presenze, vengono riconosciuti finalmente beni culturali. Testimonianze aventi valore di civiltà in attesa di un recupero capace di riattivare, funzionare, comunicare e soprattutto conservare.

La Collezione Museale

Segue un suo preciso iter, il piano terra è dedicato all’arte della Roma repubblicana più antica. Capolavori da manuale come il frammento di pittura dalla tomba dei Fabii di III secolo a.C., uno dei più antichi esempi di pittura tombale romana, e la statua del Togato Barberini, che raffigura un anziano patrizio con in mano le teste/ritratto dei suoi antenati secondo una pratica comune presso le nobili famiglie romane.

Al piano terra, però, la protagonista assoluta è la giovane Crepereia Tryphaena, una fanciulla promessa sposa ma morta prima di sposarsi, che fu seppellita con la sua bambolina, in tutto e per tutto simile ad una barbie di oggi: una storia tristissima che a distanza di quasi 2000 anni non smette di commuovere e che anzi, colpì il poeta Giovanni Pascoli, che le dedicò una poesia, all’indomani della scoperta della sua sepoltura, nel 1889.

Al piano terra, una sezione recentemente allestita, e un po’ avulsa dal resto, ospita il treno di Papa Pio IX, il papa che volle che la nuova tecnologia dei trasporti della metà dell’800, la ferrovia appunto, arrivasse anche nello Stato Pontificio. I vagoni esposti sono elegantissimi, portano il “marchio” di Pio IX. Il primo viaggio si svolse nel 1859 lungo la ferrovia Pio-latina fino a Ceprano, sul confine col regno Borbonico. Ma di lì a poco l’unificazione d’Italia decretò la fine dei viaggi di questo bel treno.

Il cuore dell’esposizione è la Sala Macchine, al primo piano dell’edificio. Se già al piano terra abbiamo qualche avvisaglia dei macchinari in ghisa che facevano funzionare la centrale, salendo le scale rimaniamo decisamente a bocca aperta. I macchinari, due grandi motori diesel, neri, imponenti, sono collocati da una parte e dall’altra della sala. Lungo il loro lato, tante teste e statue antiche in marmo bianco si dispongono come ad una sfilata: riconosciamo dei e dee, imperatori, tutte opere di arte romana che un tempo erano nel deposito dei Musei Capitolini e che infine hanno trovato una degna collocazione. L’effetto del contrasto tra il nero pesante dei macchinari e il bianco candido ed elegante dei volti antichi è incredibile e lascia a bocca aperta. L’allestimento gioca appunto sul contrasto tematico, su antico e moderno, su bellezza e forza, su bianco e nero, su eleganza e grazia contro potenza e rumore. L’effetto dirompente è davvero ben riuscito e non si può restare insensibili.

In fondo alla stanza, invece, si dispongono le statue che decoravano il frontone del tempio di Apollo Sosiano, di età augustea. Le statue sono originali greci: secondo una prassi consolidata nella tarda età repubblicana e primoimperiale, dalla Grecia fluivano a Roma opere d’arte greche di artisti più o meno famosi. Se molte opere venivano acquistate da collezionisti privati, molte altre invece erano esposte al pubblico, come ornamento per la città. Il frontone del tempio di Apollo Sosiano risponde a questa logica.

Una grande sala attigua ospita statue di età imperiale avanzata, provenienti dagli Horti, ovvero dai giardini di alcune grandi case di Roma. Tra le sculture, senza dubbio la Musa Polymnia, avvolta nel suo mantello, con la sua espressione assorta e senza tempo, è l’opera maggiore; ma anche la statua del satiro Marsia appeso per essere scuoiato vivo (perché secondo il mito aveva osato sfidare Apollo nella musica, uscendo sconfitto dalla disfida) è capace di scuotere l’animo in chi la guarda. Tra i monumenti funerari, l’edicola del giovane Sulpicio Massimo, che nel 94 d.C. aveva vinto il certamen (gara) di poesia con un poemetto sul mito di Fetonte che volò troppo vicino al Sole, commuove perché i suoi genitori riportarono il testo di tutto il componimento poetico, fieri del talento di quel giovane artista troppo presto stroncato dalla morte. Ancora, nella sala, il pavimento è occupato da mosaici a tema di caccia: in essi è rappresentato il padrone di casa a cavallo mentre assale un cinghiale e altre scene simili con altri animali, secondo un gusto che nel III-IV secolo d.C. andava piuttosto di moda.

Share by: